L’anno dell’orca
Vieni. Ti faccio vedere ancora un po’ di oceano. Il nostro oceano. Appoggiati a me, sulla mia schiena nera. Non devi fare nulla se non puntare l’orizzonte, sentire l’onda che arriva e quella che passa. Non devi neanche nuotare, perché sotto di te ci sono io: non mi sposterò, non ti lascerò precipitare, nemmeno per gioco. Ricordi? Lo facevo sempre, e che risate. Prendevi paura, e avevi ragione tu: non si scherza con le cose profonde, nel mare e fuori dal mare. Ma ora puoi solo riposare. Ti porterò io, per diciassette giorni, per mille miglia. Finché potrò, finché lo vorrai.
Quando è arrivata J35, ho capito che la seconda stagione di NOI SIAMO MEMORIA poteva solo cominciare così. Con un cucciolo portato per mare, a lungo, nel 2018. E con un secondo cucciolo trasportato sul dorso alla fine dello scorso anno. Dallo stesso essere vivente, l’orca J35. Un essere maestoso, che gli inglesi chiamano killer whale, e noi italiani nominiamo nello stesso modo, terrificati dalla natura proprio come loro: assassina. Per i ricercatori che la studiano, invece, J35 non ha soltanto un codice ma anche un nome, come merita: si chiama Tahlequah.
Eccola che passa davanti alle case sulla costa, col suo secondo cucciolo portato a spasso tra le onde. E ho pensato che Tahlequah è tale e quale alla Memoria. Prende sulle sue spalle una vita che non c’è più e la rende ancora presente, per quel che può. Le fa vedere il mondo e contemporaneamente la mostra, la espone come a dire a tutti “c’è stata”, ha abitato anch’essa questa terra, o questo oceano. Perché le orche lo conoscono bene. La vita che c’è stata merita un ultimo viaggio.
E poi ho compreso che sbagliavo. Che la Memoria non è come Tahlequah. Perché fare memoria non significa quasi mai portare sulle spalle le vite di chi abbiamo conosciuto, o di chi abbiamo amato. Per quelli, in fondo, la nostra memoria si sovrappone ai ricordi, al tempo passato insieme, all’importanza intima delle persone, e ciascuno ha le proprie. Fare memoria significa invece ricordare gli altri, tutti gli altri. Quelli che non abbiamo conosciuto. Che erano diversi da noi.
Somiglia in questo a quando chiediamo diritti. Più diritti. Se li chiediamo per noi, per la nostra identità o libertà, possiamo essere forti e convincenti. Ma se li chiediamo per altri, quando a noi quegli stessi diritti sono già riconosciuti per nascita o per fortuna o per entrambe le cose, non siamo solo forti e convincenti. Siamo civiltà.
Facciamo Memoria per altri. Chiediamo Memoria per altri. Solo così la Memoria fa bene a tutti.
Chi come me
scrittorincittà è il festival che aiuto a ricreare ogni anno. Succede a novembre ma ci lavoriamo per dodici mesi. Siamo un gruppo di curatori e ognuno fa il suo pezzo. Quest’anno tra parentesi mi hanno scattato la foto migliore che ho, nascosto dietro le poltrone di una delle sale perché una volontaria, imbeccata da un’ospite, stava per far esplodere un palloncino e la cosa, da sempre, mi spaventa.
Quest’anno, tra i duecento e passa autori, c’era Roy Chen. Israeliano. Parla un italiano praticamente perfetto. In Italia i suoi testi teatrali sono un successo via l’altro.
Ero molto curioso di conoscere Roy. E la mia curiosità è stata appagata dalla sua saggezza. Il libro di cui parlavamo insieme si intitola Chi come me (è pubblicato in Italia da Giuntina). E nel libro si parla di un gioco di gruppo che di solito si fa al chiuso: è il classico gioco del cerchio di sedie, con un tipo in mezzo che deve rubarne una. Chi sta al centro dice chi come me… facendo seguire la frase da caratteristiche, storie, idee sempre più complesse. Chi corrisponde al chi come me si alza e cerca di sedersi su una sedia rimasta libera, diversa dalla propria. Nel parapiglia, chi sta in mezzo deve rubare il posto a qualcun altro. Si può partire da cose semplici come chi come me porta i jeans per arrivare a cose più profonde, perfino segrete e intime.
È un gioco che uso ogni tanto in università, e sono felice che Roy lo abbia preso a paradigma di una storia ambientata in un centro di recupero per ragazzi con diverse problematiche della mente.
Dice uno dei suoi personaggi:
Gli adulti sono come gli adolescenti ma senza la speranza.
La speranza
Quest’anno sento che ci avviciniamo al Giorno della Memoria 2025 con un pessimismo palpabile. Lo percepisco negli adulti che ti si confidano, tra chi lavora nelle scuole o con i minorenni in genere, perfino nelle domande dei giornalisti che un po’ più svogliati del solito ti chiedono ancora cosa stia succedendo e cosa ne pensi di Israele, senza quasi ascoltare la tua risposta.
C’è una grigia maretta che non so da cosa dipenda in verità, forse dalla difficoltà nel trovare riferimenti credibili, dall’avvento di personaggi potenti, ricchi ed egocentrici che abbiamo sempre associato alle dittature e mai alle democrazie, villain scappati da fumetti di scarsa qualità. Forse perché se punti un dito a caso su un mappamondo ti sembra di centrare solo nazionalisti, ultranazionalisti, estremisti più o meno religiosi, illiberali di ogni categoria.
Mi chiedo, però, se noi adulti abbiamo ancora il diritto di gettare questo nostro pessimismo disilluso sulla generazione che viene dopo di noi. Mi chiedo se questo pessimismo non sia in fondo un ottimo alibi per mettere i sacchetti di sabbia alla finestra e non fare più nulla per cambiare le cose. Tanto va così.
Nel mio mestiere, invece, ci si riempie gli occhi di nuove generazioni, di nuove idee. Di cose diverse. Anche di problemi differenti, guai, situazioni strampalate ed estreme, ma perlomeno nuove. A costo di passare per ingenuo (ma essere idealisti, in fondo, non impone un certo grado di sana ingenuità?), credo ci sia una generazione che prepara tempi migliori. Ed ecco cosa chiedo a questo cerchio di lettori che sono i lettori della mia newsletter (sì, a voi), proprio come se stessimo giocando al gioco di Roy Chen: chi come me se la sente di sperare ancora un po’?
Io spero che vi stiate alzando in tanti, e che vi stiate scambiando i posti sulle sedie rimaste vuote. Anzi, ne sono certo.
Romi, a galla
E poi è arrivata anche Romi Gonen, qualche ora fa: è stata finalmente liberata dai terroristi di Hamas e nella foto che compare su Haaretz è in braccio alla madre. Lei vestita di nero, ventitreenne, le si accuccia addosso. Mi ha ricordato il gesto che fanno le bambine piccole coi genitori, quando sono stanche alla sera.
Ma soprattutto mi ha spinto a ripensare a J35 che tiene il suo cucciolo perduto ancora a galla. La posizione è molto simile. Lo spirito è lo stesso. Anche la madre di Romi, per quasi 500 giorni, i giorni della prigionia della figlia, ne ha tenuto a galla il pensiero. Perché di più non poteva fare. Il cucciolo non c’è più, ma un po’ c’è ancora. Romi invece c’è.
Tra poco il nostro pensiero tornerà invece alle tante persone ancora in ostaggio di Hamas, al numero doloroso di vittime civili palestinesi causato dall’esercito israeliano, che una guerra condotta malissimo ha provocato e che non verranno mai più restituite alla loro famiglie, a una terra senza leader capaci di trovare soluzioni pacifiche. Ma finché non torna quel pensiero, per qualche minuto, per qualche minuto soltanto, lasciatemi perdere nel sorriso di Romi. Cucciolo nero di orca sulla schiena di sua madre, finalmente in salvo.