Variegato realtà (in yiddish)

Yiddish Poetry

Precisazioni

Nella mia ultima letterina raccontavo della pubblicità di Bella Hadid per Adidas ritirata dall’azienda tedesca, e scrivevo di non aver trovato nulla di clamoroso nei social della modella giordano-palestinese. Ma chi legge la mia newsletter è più attento di me, e mi sono arrivati diversi link (thank you), tra video e post vari, nei quali Hadid nel recente passato ha sostenuto sì la causa palestinese, ma più di una volta superando il confine tra sostegno empatico e giustificazione dell’odio contro gli israeliani.


Complesso di complessità

In occasione della visita di Benjamin Netanyahu alla Casa bianca, Donald Trump ha dichiarato che Kamala Harris non ama gli ebrei. La frase esatta, pronunciata a WABC Radio, recita così: No. 1, she doesn’t like Israel. No. 2, she doesn’t like Jewish people. You know it, I know it and everybody knows it and nobody wants to say it. Traduzione: «Uno, non le piace Israele. Due, non le piacciono gli ebrei. Voi lo sapete, io lo so e tutti lo sanno, e nessuno vuole dirlo».

Il più grande oppositore dei mistificatori è sempre la realtà: il marito di Kamala Harris, Doug Emhoff, è ebreo. Qui l’intervistatore, accortosi che Trump aveva detto l’ennesima castroneria, avrebbe potuto fermare il suo delirio. Già, se solo non si fosse chiamato Sid Rosenberg. Così Rosenberg, ebreo, ha pensato bene di metterci il carico. Dopo aver chiarito che il first gentleman è ebreo, ha aggiunto: He’s a crappy Jew. He’s a horrible Jew. Traduzione: «È un ebreo schifoso (versione morbida), è un ebreo orribile». È chiaro che Rosenberg decida quali siano gli ebrei buoni e quelli cattivi.


A Bergen, in Norvegia c’è un murale di Anne Frank che indossa una kefiah. Lo ha prodotto l’artista anonimo Töddel per chiedere di porre fine alle uccisioni di donne e bambini innocenti a Gaza.

Lo European Jewish Congress ha immediatamente denunciato l’opera.

Rappresentare una vittima dell’Olocausto con una kefiah è una grave distorsione della storia. Non si tratta di una critica autentica, ma una rappresentazione distorta profondamente antisemita e offensiva che mina la memoria dell’Olocausto.

Lo street artist Töddel, pur rimanendo anonimo, ha spedito un comunicato alla Jewish Telegraphic Agency, a sua difesa. Töddel scrive al plurale.

Abbiamo scelto Anne Frank per il murale proprio per il rispetto che abbiamo della storia dell’Olocausto. Abbiamo letto il Diario di Anne Frank diverse volte e abbiamo visitato il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau con i nostri figli. Anne Frank è un simbolo di innocenza. Come i bambini e le donne di Gaza, ha sofferto ed è morta a causa della sua etnia e religione e per essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Quel che salta all’occhio è l’equiparazione tra Shoah (un genocidio su basi razziste) e l’azione dell’esercito Israeliano nella Striscia di Gaza. Non credo, e non ho mai creduto, che ciò che sta avvenendo a Gaza sia letteralmente un genocidio. Se parliamo di parole, le stragi di civili palestinesi non rientrano nella definizione di “genocidio” così come l’abbiamo studiata.

Ma questo discrimine linguistico mi allontana dall’orrore? Essere scesi a patti con le parole ci fa stare più sereni? Sapere che quel che accade è “semplicemente” una strage, anche di tanti bambini, ci mette al riparo dal dolore e dal giudizio?

Così dalla dichiarazione un po’ sconclusionata di Töddel provo a tirar fuori una parola differente: innocenza. Anne Frank è simbolo di innocenza. Innegabile. Lo è da sempre, da quando il Diario ha avuto una diffusione mondiale. E in fondo lo abbiamo voluto: abbiamo desiderato che quella ragazzina diventasse un simbolo. Quando qualcosa diventa un simbolo, il suo significato esce di forza dalla Storia e dalle storie, va fuori controllo, si sublima: ogni simbolo è essenziale, e così Anne Frank.

Provo fastidio nel vedere Anne con la kefiah? No. Non credo nemmeno sia una manifestazione antisemita (questo termine andrebbe forse usato con più saggezza e parsimonia, credo). È sicuramente una rappresentazione strampalata e naïf.

Mi spiego meglio: si tratta più che altro di pigrizia. L’artista Töddel è pigro (se vuoi offendere un artista, credo che pigro sia l’epiteto peggiore). Cosa ha fatto? Ha preso un simbolo ben riconoscibile nella cultura mondiale (occidentale, in particolare) e lo ha stravolto. Il senso dell’opera è tutto qui: non riesce a muoversi oltre il cliché, non dà fastidio, non fa pensare. Si guadagna qualche titolo di giornale giusto perché c’è Anne Frank.

E poi, anonimo Töddel, devo dirti che Anne Frank non la pensa come te, come scrivi nel tuo comunicato. Non ne siamo certi, non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Anne Frank la pensava come le pareva, come desiderava, come voleva, cambiava idea, tornava sui propri passi, si rimangiava le parole. Era una persona, e non un simbolo. E se le attribuisci pensieri e volontà tue sei solo un disonesto, e non un artista.

Ironia nera della geografia: Anne Frank morì di tifo nel lager di Bergen-Belsen, in Germania. Che non c’entra nulla col Bergen in Norvegia, però ha lo stesso nome.


I’m Palestinian. I’m American

Cos’hanno in comune le due notizie precedenti? Nulla, se non mostrarci che la mancanza di complessità genera messaggi senza alcun senso. Ne aggiungo una terza, perché quel che è successo nel Center for Jewish History Museum di New York manda in cortocircuito le nostre convinzioni.

Che accade? Alcuni manifestanti proPal disturbano la messa in scena di The Trial of Eichmann di David Serero. Tra gli spettatori, qualcuno si arrabbia con loro, qualcuno li accusa di offendere “i sei milioni di morti”, gli organizzatori dell’evento li invitano, devo dire con pazienza e accondiscendenza, a uscire dal teatro. Ma è solo a quel punto che un uomo di origini palestinesi sale sulle scalette del palco e risolve la cosa, e quel che accade lo si vede meglio nel video, dal minuto 2:00.

I’m Palestinian. And I’m American. And I came here to see a play. So then enough with the signs. I’m Palestinian and I’m telling you this is not the moment for this, right now.

Credo non ci sia bisogno di traduzioni, nemmeno quando nel finale aggiunge:

What we need is peace.

E c’è qualcosa di meraviglioso in queste poche parole. Pace. Ne abbiamo bisogno oggi come non mai. La pace nel mondo variegato nel quale viviamo. E conviviamo. La guerra, oggi come sempre nella storia, nasce dalla chiusura, dalla negazione della convivenza e della complessità.


Saremo l’eco

Chi conosceva la bellezza della complessità era Alex Dancyg. Israeliano di famiglia polacca, lavorava per lo Yad Vashem nel settore educazione. Incontrava ragazzi e ragazze, faceva progetti, faceva viaggi della Memoria, raccontava le storie della sua gente.

Alex Dancyg è morto in prigionia. Rapito da Hamas il 7 ottobre 2023, la notizia della sua morte è arrivata due giorni fa. Nato in una famiglia di sopravvissuti alla Shoah, nel tempo libero lavorava la terra. Viveva nel kibbutz Nir Oz. La didattica della Memoria per lui era qualcosa di concreto e vivo, quotidiano.

Per nove lunghi mesi abbiamo sperato e pregato di essere di nuovo insieme. […] Alex, saremo l’eco della tua presenza concreta. Sarà il nostro modo di piangere il vuoto lasciato dalla tua assenza. So che continueremo a ricordare, e ricordare, e ricordare. Che il tuo ricordo sia una benedizione.

Così lo ricorda lo Yad Vashem. Saremo l’eco. Non “faremo” l’eco. Saremo.


Psichedelica Torah

Asher Etherington è il giovane capo ben poco ortodosso della più grande congregazione ebraica del sud della Nuova Zelanda, a Christchurch. Il suo ultimo progetto è illustrare l’intera Torah usando l’intelligenza artificiale. Già il nome della sua città suona poco ebraico, ma quel che Etherington ci mostra è un viaggione nelle parole della Torah, trasformate dall’AI in qualcosa di visivo.

Aster ha 28 anni, indossa giacche funky, era stato attivista nella campagna per la legalizzazione della marijuana in Nuova Zelanda (non so, non mi stupisce la cosa). Il suo ultimo progetto è una pagina Instagram dedicata alle immagini AI che produce, per lo più psichedeliche, generate da spunti che potremmo definire “biblici”. Etherington si descrive come “un ebreo anglicano agnostico”.

A volte la complessità prende un po’ la mano.


Come si dice Wingardium Leviosa in yiddish?

Per voi amanti ossessionati di Harry Potter, una notizia che vi farà spendere nuovi quattrini per proseguire nella vostra collezione. Il 14 agosto, tra pochi giorni, uscirà Harry Potter e la Camera dei Segreti… in yiddish. Il libro è stato tradotto da Arele Schechter Vishwanath ed è pubblicato dall’editore Olnyansky Text.

Il primo volume della saga era andato esaurito in una settimana, nel 2020. Ma qualche copia la si trova ancora online, qui e là. Le copie del secondo volume si ordinano su Etsy. Strano, per un editore. Forse è tutto al limite del diritto d’autore, ma l’iniziativa mi diverte.

C’è un ritorno dell’yiddish così come in USA c’è un ritorno del latino? Certamente. Ne parliamo a volte come si parla dei dischi in vinile, a volte invece come la riscoperta di qualcosa di più profondo. In questo mondo dove la complessità è bellezza e pace, si muovono identità nascoste.

Consiglio a proposito la visione di un docufilm molto bello, The Secrets of Yiddish Poetry. È un viaggio nella poesia yiddish attraverso le voci di sette giovani. La passione, le parole, l’amore… tutto si intreccia a formare un quadro esso stesso poetico. Salvare una lingua significa in fondo salvarne le storie.

Girato in Francia, Germania, Israele, Lituania e Polonia, il film è esso stesso multilingue e include conversazioni in francese, ebraico, yiddish e inglese. La regista è francese ma nata a Tel Aviv, e si chiama Nurith Aviv. Nel docufilm possiamo ascoltare le vite di sette giovani attraverso le poesie in yiddish che ispirano le loro scelte. Ognuno di loro condivide il legame con un particolare poeta che ama, e alcuni recitano un brano preferito. Tra i poeti ci sono Celia Dropkin, Moyshe-Leyb Halperin, Anna Margolin e Abraham Sutzkever. Nelle varie interviste e nelle note di regia, Aviv sottolinea un aspetto fondamentale.

I poeti di quel periodo erano poliglotti e spesso si spostavano da un paese all’altro. Anche i protagonisti del mio film si muovono tra paesi e lingue diverse.

Ieri e oggi si toccano. Come quando si fa memoria.