Binario o non binario

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Cos’hanno in comune Amy Winehouse, Anne Frank, Estée Lauder e Ofra Haza? Sono donne (questa è facile) e sono ebree (questa per alcune è meno scontata). Sono solo quattro tra le figure femminili raccontate in un nuovo libro uscito in Svezia, Judiska hjältinnor, e firmato da Joanna Rubin Dranger, Karin Brygger e Anneli Rådestad. La traduzione del titolo è “eroine ebree”, e il volume ne raccoglie 120, tra le quali Ruth Bader Ginsburg, Susan Sontag, Judith Butler, Barbra Streisand, Bette Midler, Annie Leibovitz… e ci sono anche le donne delle vicende bibliche.

Alcune sono nate ebree. Altre si sono convertite (come Marilyn Monroe), altre avevano il padre ebreo ma la mamma no, altre ancora si sono riconosciute come ebree solo nel corso della loro vita, altre hanno fatto della loro identità ebraica una sorta di firma.

C’è di tutto. Una delle autrici ha detto così in un’intervista:

Spero che il nostro libro possa dare alle lettrici, e anche ai lettori, dei modelli di riferimento in questi tempi turbolenti e terribili.

Aggiungo che il buono di questa nuova opera è proprio l’infinita sfaccettatura di modelli di riferimento, e l’idea concreta che la civiltà ebraica sia varia e variabile, mutabile e dinamica. Insomma, non è così importante, credo, se il risultato della lettura sia l’identificazione personale in Rosa Luxemburg o in Carrie Fisher (per quanto mi riguarda, pendo per la seconda). Se tutte queste donne hanno contribuito ad abbattere barriere, spero che il libro aiuti a tirarne giù perlomeno una: la pigrizia binaria.

Pigrizia binaria

No, non bonaria. Magari ci fosse pigrizia bonaria. Sarebbe un pianeta migliore, popolato da scansafatiche gentili e affettuosi, un po’ come Ciccio a Paperopoli. Per pigrizia binaria intendo quella forma mentale che ci spinge a inscatolare ciò che vediamo, sentiamo, perfino quello che proviamo. E soprattutto ci spinge a inscatolare gli esseri umani. Ma non usando tante scatole: solo due per volta.

Non parlo qui di questioni di genere, perché c’è chi è più preparato di me a scriverne. Parlo proprio di identità in genere. La pigrizia che la coinvolge è tutta nel cervello, e colpisce spesso persone che con le altre parti del corpo sono tutt’altro che pigre: fanno, disfano, si muovono, a volte picchiano, urlano, scrivono sui social decine di messaggi quotidiani…

Forse è una caratteristica che ci viene da quando vivevamo nella grotta e al volo il nostro cervello, davanti a un rumore inaspettato o a una novità, doveva prendere una decisione vitale. Pericoloso o mansueto? Commestibile o velenoso? Scappare o rimanere? Assaggiare o tenersi la fame?

Questa caratteristica ci ha salvato la vita milioni di volte, però i tempi sono cambiati. Oggi è più raro incontrare una tigre coi denti a sciabola sulla ciclabile, gli ingredienti del cibo che compriamo sono scritti grandi così e tengono lo spazio di un racconto di Carver: dovremmo vivere tutti più rilassati. Ma il nostro cervello no, è ancora quello là delle grotte, che non si fida di nessuno. E, oggi pigramente perché privo del senso primordiale, accetta ancora di ragionare come cinquantamila anni fa.

Quindi non so se queste donne erano eroine (è una parola che non mi piace molto, anche al maschile) ma di certo per ciascuna l’identità ebraica è stata una parte del tutto, a volte importante, a volte meno.

Vivere aspettando

Su The Forward online alcuni giorni fa è comparso un pezzo proprio bello di Aviya Kushner, nel quale la scrittrice racconta una briciola di vita a Tel Aviv. Una gioielleria in un centro commerciale, piccoli monili fatti a mano dalla proprietaria. Davanti a Kushner, una cliente impiega tanto tempo a scegliere una collana verde, finalmente si decide, la paga e scoppia a piangere.

Ma cosa sto facendo? Compro gioielli in un momento come questo?

La proprietaria del negozio, una madre single di due bambini, annuisce.

Ci sentiamo tutti così.

Già. In un momento come questo. Nel quale tutti attendono un attacco iraniano contro Israele. E per i governanti iraniani il mondo è binario ed è diviso in Israele e chi non è Israele, parteggiando per questi ultimi, e gli attuali governanti di Israele sembrano dividere il mondo alla stessa maniera, parteggiando per loro stessi.

Pensare binario è in fondo il modo meno umano possibile. Genera guerre e razzismo. Genera domande esistenziali tra tutti coloro che per la loro identità sfaccettata e originale (leggi: per la loro vita) si sentono in pericolo. E forse davanti al pericolo anche la vita conta ancora, e continuare a vivere diventa una forma di resistenza. Scrive infatti Kushner:

Sono uscita dalla gioielleria con un braccialetto di legno verde scuro, due collane sottili e un paio di orecchini. Credo che si possa continuare a vivere. Ho la speranza che io e la donna con la collana verde saremo entrambe affascinanti, se stasera dovremo correre in un rifugio antiaereo.

La solitudine

Anche Bernard-Henry Levi ragiona di questo genere di pensiero nel suo ultimo libro. Non è proprio un instant, perché arriva a mesi di distanza, ma è molto lucido e coerente: anche quando non lo condividiamo, ci chiede comunque di pensare. Che non è male. S’intitola Solitude d’Israël ed è una riflessione sullo shock dopo il 7 ottobre 2023, uno “scossone nella coscienza universale”. Levi si chiede se la solitudine di Israele sia irrimediabile.

Un collega vicepresidente

Io credo di no, credo che non la sia. Qui e là vedo segni buoni e cose che invitano a sperare. Un segnale interessante? Il vice di Donald Trump se la intende coi negazionisti della Shoah, con razzisti conclamati, con chi crede alla sostituzione etnica, con complottisti di vario genere, estremisti religiosi, antisemiti e varia umanità weird. In più, si gloria di essere il vice di Trump, capite? Di Trump.

Invece Kamala Harris ha da poco scelto tra i democratici americani il suo vice: si chiama Tim Walz, e questo lo sappiamo tutti. La novità è che la tesi di master scritta da Walz, alla Minnesota State University, era tutta sulla didattica della Memoria, quella che gli americani chiamano “Holocaust and genocide education”. Tim è un collega, praticamente. Vai Kamala!

I binari e il binario

Se si parla di Shoah e di binario, il pensiero va subito alle ferrovie. Come ogni gioco di parole, anche questo in fondo apre a mondi mai così lontani. E fa pensare.

Il museo Yivo ha inaugurato una nuova mostra online. È dedicata al diario ritrovato di una ragazzo tredicenne nel ghetto di Vilna ed è molto completa, ben costruita. Il ragazzo si chiama Yitskhok Rudashevski: va a scuola, sta con la famiglia e con gli amici, legge e scrive poesie e viene coinvolto nel centro culturale ebraico. Suo padre è tra i collaboratori di un quotidiano in yiddish, Vilna Tog.

Nel giugno del 1941 Rudashevski comincia a tenere un diario. Le sue parole raccontano la sua vita, passata dall’essere felice al dolore della guerra nell’arco di tre mesi. E poi il trasferimento forzato nel ghetto. Scrive in yiddish, ha una bella grafia. Lo fa per due anni. E la mostra ci permette di seguirlo, di stare sui suoi binari. Ma c’è anche la comunità ebraica con la sua storia, e una città tutta intorno, misteriosa e profonda come Vilna.

Il 6 settembre 1941 Rudashevski deve entrare nel ghetto e scrive:

A casa stiamo facendo le valigie. Le donne vanno in giro torcendosi le mani e piangono, mentre guardano le stanze dopo il pogrom. Cammino stanco tra i fagotti, ho dormito poco. Veniamo sradicati in fretta dalle nostre case. Una grande massa nera di persone si muove, avvinghiata ai grossi fagotti. Capiamo che presto toccherà a noi. Guardo la stanza disordinata, i bagagli, la gente disperata. Vedo sparpagliate le cose che mi erano diventate così care.

Nel settembre del 1943, i nazisti liquidano il ghetto e Rudashevski e la sua famiglia si nascondono in una soffitta. Vengono scoperti e uccisi poche settimane dopo, nella vicina foresta di Ponar. Suo cugino, Sore Voloshin, riesce a scappare. È l’unico sopravvissuto della sua famiglia, trova il diario in soffitta dopo la fine della guerra. Il diario originale è conservato a Manhattan dal 1946. Ma da oggi il diario di Yitskhok è conservato anche qui, nei nostri cuori.