Miroir e mémoire

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Groucho: Qualche risposta a quel messaggio?
Operatore telegrafico in battaglia: No, signore.
Groucho: Beh, in tal caso non inviarlo.

Il film più bello dei Fratelli Marx è Duck’s Soup. In italiano fu tradotto con La guerra lampo dei Fratelli Marx ed è un film assurdo sull’assurdità della guerra, distribuito sei anni prima del secondo conflitto mondiale. In quel film c’è il refrain del sidecar: Groucho, statista cinico e donnaiolo di Freedonia, vi sale per andare in fretta ogni volta in un luogo diverso, la motocicletta parte ma il carrozzino rimane dov’è, con il suo passeggero sempre più sconfortato. La scena cult è però quella dello specchio. Entrata nella storia del cinema, vede un grande specchio rotto e due persone che giocano a essere la stessa, cercando di fregarsi a vicenda, anche intrecciando i loro corpi al di fuori della bidimensionalità dell’immagine riflessa. Mentre il sidecar mi fa ridere, lo specchio mi fa ridere e pensare. Scrivo tenendo nella mente questa scena, è il mio fil rouge di oggi.

 

Cicatrici a colori

Dal 2016 è attivo in Israele un progetto chiamato Healing ink. Formato da tatuatori professionisti volontari, il gruppo di Healing Link realizza tatuaggi per coprire le cicatrici di chi ha subìto una violenza o un trauma. Organizza eventi pubblici in luoghi d’arte, come i musei o le gallerie, e dal 2017 ha esportato l’idea in USA, portando un conforto tatuato ai feriti delle sparatorie di massa, cosa non proprio rarissima sul suolo statunitense. Cosa dicono i volontari?

Crediamo nel potere curativo dei tatuaggi. Aiutiamo i sopravvissuti alla violenza, indipendentemente dalla loro etnia, religione o orientamento sessuale. Crediamo che le cicatrici siano fisiche ed emotive. Che i nostri destinatari debbano sentirsi sicuri e confortati.

Dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre compiuti da Hamas, Healing Ink ha tatuato molti sopravvissuti israeliani che quel giorno partecipavano al Nova Festival o si trovavano nei kibbutzim vicini alla Striscia di Gaza.

I disegni scelti dai sopravvissuti sono i più vari: l’albero d’arance dietro il quale hanno trovato riparo, il sole che hanno visto in lontananza, la musica che canticchiavano per darsi coraggio, gli uccellini che sentivano cinguettare nonostante gli spari. L’idea che un tatuaggio possa essere curativo appartiene a una dimensione al limite dello spirituale: quel che ti capita sulla pelle scende anche in profondità. E questo avviene sia per il trauma che per la cura.

 

Sterminio fuori, sterminio dentro

Dall’autunno del 1941, nel campo di sterminio di Auschwitz il comando nazista inaugurò la pratica di tatuare gli internati con un numero progressivo. Inizialmente furono i prigionieri sovietici a subire il trattamento (sulla parte sinistra del petto), e via di seguito gli altri (sulla parte interna dell’avambraccio sinistro). Nel 2014 il memoriale dell’ex lager riuscì a recuperare alcune tesserine di metallo, ciascuna dotata di piccoli aghi disposti a forma di numero, che ad Auschwitz venivano inserite in una sorta di morsa e premute sulla pelle di chi era stato selezionato per il lavoro schiavile. Nelle intenzioni dei nazisti, quelle tesserine avrebbero velocizzato l’operazione.

Per approfondire, c’è il documentatissimo e indispensabile Auschwitz. Storia e memoria di Frediano Sessi. I lager erano luoghi dove individui apparentemente senza nome (e dunque senza responsabilità) uccidevano persone alle quali il nome era stato tolto (e dunque senza identità, agli occhi dei carnefici). È un paradosso, ma il numero sul braccio era l’ultimo segno di unicità per un internato. Il tatuaggio, quel tatuaggio bluastro e sfrangiato, ha accompagnato i sopravvissuti per tutta la loro vita. Alcuni tra loro hanno preferito cancellarlo con un’operazione chirurgica. Molti lo hanno tenuto, magari senza mostrarlo volentieri. E tanti si sono domandati se in fondo Auschwitz fosse sopra o sotto la pelle.

 

Auschwitz. Origine controllata

A maggio Sky ha trasmesso in italiano le sei puntate di una nuova serie made in USA, Il tatuatore di Auschwitz. Pur con la presenza di un attore come Harvey Keitel, la produzione non raggiunge mai vette troppo alte e non so se consigliarvela. Soffro poi di una forma di sospetto ogni volta che vedo opere “ispirate a eventi reali” che riportano nel titolo la dicitura “di Auschwitz”.

Con la fiction o simil-nonfiction negli ultimi tempi ci siamo andati un po’ pesanti. Alcuni esempi fra i libri? Sono tutti veri: Gli architetti di Auschwitz, I medici, Il bibliotecario, La bibliotecaria, Il dentista, Il farmacista, Il fotografo, Il maestro, Il sopravvissuto, Il volontario, L’infermiera, L’orfano, La bambina, La bestia, La guardia, La lettera perduta, La scacchiera, La stanza segreta, Le 999 donne, Le gemelle. Tutti “di Auschwitz”.

Nel mucchio di sono anche opere di pregio, ci mancherebbe. Però dico a voi, amici editori: un po’ di fantasia, dai.

 

Specchi non speculari

Ma torniamo a Groucho. Ci sono tatuaggi di oggi che curano il trauma del 7 ottobre, e ci sono tatuaggi di un tempo, del tempo della Shoah, che sono essi stessi il segno del trauma. Due tatuaggi allo specchio. Diversi per la Storia, simili per la Memoria, provano a muoversi insieme fin quasi a confondersi. Ma noi lo vediamo che sono diversi.

Ecco cos’è la Memoria: è questo continuo specchio che non riflette mai troppo bene. Uno specchio che non è matematico, geometrico, sicuro. Che rimanda a qualcosa mostrandocene in fondo un’altra.

Miroir e mémoire sono due parole francesi troppo belle per non somigliarsi, e troppo somiglianti per non essere belle: specchio e memoria. Memoria e specchio. Sembrano specchiarsi una nell’altra ma senza essere perfettamente speculari. Non è solo un gioco di parole.

 

Più bianchi della neve

Aspergimi con rami d’issòpo e sarò puro
lavami e sarò più bianco della neve.

Lo dice il Salmo 51. Ricordo che, ai tempi dell’università, noi studenti di Ca’ Foscari mettevamo insieme i brani di mistica ebraica intorno a questo bianco misterioso, e ne trovammo alcuni ancor più misteriosi, che richiamavano al biancore dei malati. Come se quel bianco non volesse dire purezza di per sé, una condizione di perfezione quasi sovrumana, ma intendesse la vita, con tutto quanto c’entra con la vita. Paura inclusa. Malattia inclusa. Discriminazione inclusa. Un bianco che non è celestiale ed etereo ma molto umano, pur rimanendo limpido. Un colore che allevia le cicatrici e le cura, ma senza cancellarle.

Ripenso spesso a quel brano quando vedo le vittime dei bombardamenti. A qualsiasi latitudine, da qualsiasi guerra siano travolte, hanno tutte lo stesso colore. La pelle ricoperta da polvere di cemento chiara e calcinacci. I capelli imbiancati dalla nuvola seguita all’esplosione. Che siano vive oppure no, hanno lo stesso sguardo. Bianco.

A Kiev come nella Striscia di Gaza. Sì, è vero: gli attacchi arrivano da due contesti e da due nazioni profondamente differenti. La prima è una situazione più lineare, la Russia di Putin è una dittatura sanguinaria dove, tra le mille cose negative che possono capitarti, finisci in galera se scrivi un’opera teatrale non gradita. La seconda è più complessa, Israele è una democrazia bella e imperfetta come tutte le democrazie, con un’opposizione in parlamento, testate giornalistiche ben poco allineate con il governo, tanti figli che soffrono perché i padri devono andare in guerra e tanta gente che manifesta in piazza.

Ma che la bomba l’abbia avvitata un russo o un israeliano al bambino che la vede arrivare dal cielo cosa cambia, in fondo?

Penso ai piccoli palestinesi: oggi sono loro più bianchi della neve. Ce li mostra un docufilm prodotto da Channel 4 in UK, Kill Zone: Inside Gaza: Dispatches. In Israele le proteste contro il governo proseguono, in mille forme e con molte sfaccettature diverse, ma i bambini bianchi come la neve rimangono. Tutti i giorni. E ci interrogano. Comunque la pensiamo, ci urlano qualcosa. Davanti al loro candore (ecco cosa li rende più bianchi della neve) fatichiamo a trovare giustificazioni, non sappiamo più quale sia il peso sufficiente da contrapporre sull’altro piatto della bilancia.

Riusciamo a specchiarci nel loro dolore? Riusciamo a specchiarci anche male, goffamente, alla Groucho Marx, nel loro dolore?

 

Tempo di andar via

A proposito di pelle, da tempo OnlyFans ne scopre davvero tanta. Lo sapevamo già, ma la novità riguarda la guerra: quel che accade tra Israele e Palestina pare sia fonte di ispirazione per molti video della piattaforma dedicata all’auto-produzione. La cosa non riesce a sorprendermi.

Come scrivevo l’ultima volta, sono stato ad Amsterdam con un gruppo di ragazzi e ragazze Erasmus. Giusto il tempo di decollare dalla città, domenica scorsa, e Het Parool ha pubblicato questa foto.

 

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In questo luogo, a Merwedeplein dove Anne abitava da ragazza libera, avevo accompagnato il gruppo solo poche ore prima. La statua di Anne Frank era pulita (non guardatemi così, non siamo stati noi). Per chi non riesce a decifrare lo spray, c’è scritto Gaza.

Forse mi manca qualche elemento, ma non colgo quale differenza ci sia tra ambientare un video di OnlyFans in una tragedia e scrivere il nome di una tragedia sopra un’altra tragedia. Qualcuno pagherà un abbonamento e si divertirà online. Restaureranno il monumento ad Anne Frank e fine. Entrambi i fenomeni sono frutto di una pigrizia mentale che gratifica il singolo senza modificare di un millimetro la realtà.

I bambini bianchi di esplosioni a Gaza mi interpellano, ma l’uso della parola Gaza che si sta facendo in Europa ormai non mi tocca: sembra essere diventata una parola buona per tutte le rabbie, per tutte le nevrosi, per OnlyFans come per gli antisemiti. Si è depotenziata perché abusata.

La Memoria, quando è solo sulla pelle degli altri, non è abbastanza memoria. Se qualcosa non si deposita sulla nostra, non ci imbianca di umanità, la memoria non lascia segni. Rimane indelebile solo se scende in profondità. È Miroir e mémoire. Attraverso la pelle, attraverso lo specchio.