Il dolore quando è degli altri

Medeas
 
Un’immagine di scena da Medea’s Children.

 

Trigger warning (16+): this show contains scenes that directly or indirectly refer to suicide, infanticide, paedophilia and contains scenes involving fake blood.

Sono le avvertenze che anticipano Medea’s Children, lo spettacolo di Milo Rau. Avevo comprato il biglietto nel giorno di apertura delle prevendite, volevo la prima fila. Ma andiamo con ordine perché prima di quello ne ho visto un altro. Sempre a Venezia, alla Biennale Teatro.

La Biennale Teatro è per me un appuntamento fisso da diversi anni, vado a Venezia e seguo più spettacoli che posso. Le sale sono piene di giovani, che si fermano dopo gli spettacoli a ragionare: mi danno molta speranza. Ogni sera torno nel flusso di persone verso il battello e ascolto i loro discorsi: la meglio gioventù tiene tra le mani un biglietto del teatro.

 

Spogliati!

Quest’anno erano soprattutto due gli spettacoli che mi avrebbero magnetizzato i pensieri sulla Memoria: Food Court di Back to Back Theatre (regia di Bruce Gladwin, la compagnia è stata premiata con il Leone d’Oro) e Medea’s Children di Milo Rau. Sono andato a vederli per la bellezza delle loro produzioni precedenti e perché seguo il lavoro di Milo Rau, regista svizzero.

Eccomi nel buio di Food Court. Entra il trio dei The Necks. E comincia a improvvisare in una immaginaria buca dell’orchestra, tra piano, contrabbasso e percussioni. La poca luce ci mette un secondo a convincerci a sprofondare con loro in quel buio, e dopo dieci minuti di tappeto sonoro arrivano un po’ per volta attori e attrici (Sarah Goninon, Simon Laherty, Sarah Mainwaring, Scott Price, Tamika Simpson). La musica ci ha preparati a un dramma essenziale, la storia di un’umiliazione che porta alla morte, o ci va così vicino da farcela sentire. L’ambiente non è tracciato, è come un pensiero. La compagnia è nata in Australia nel 1987 ed è formata da persone che vengono percepite come caratterizzate da disabilità intellettuali. Il tema del dramma, che è un dramma del cibo e del peso e dell’identità fisica, che da spettatori vediamo come una lunghissima improvvisazione musicale punteggiata dal minimalismo estremo delle scene, non è però dedicato alla disabilità, anzi: la diversità mentale di chi sta in scena diventa una risorsa unica e insostituibile, dai passaggi più ironici iniziali alla potenza della tragedia, al nudo usato per schernire. Tutto si muove dal surreale al concreto, e contiene uno dei pochi nudi integrali sensati che ho visto negli ultimi anni a teatro, insieme a quello di FC Bergman nel 2023.

«Spogliati! Togliti la maglia, cicciona!»

È quel che urlano due attrici contro una terza, che non senza difficoltà obbedisce, vittima e succube. Con non poca fatica, inarcando la schiena, zoppicando, si spoglia.

Quello a cui assistiamo è una discriminazione in senso letterale, raccontata da chi di solito vediamo come discriminato, ma per altri motivi. Quando l’identità del discriminato si sovrappone alla discriminazione stessa, significa che la violenza ha vinto e lo spettacolo di Back to Back Theatre arriva a farci male perché si spinge fino a lì, a rendere odiosi e amorevoli ai nostri occhi gli interpreti, e mostrandoceli come umani, né più né meno.

Il racconto di quel dolore è servito a chi stava in scena per liberarsene, e liberarsi. È servito anche a noi che guardavamo, spettatori. Ha fatto male anche a noi. Non ci ha lasciati stare.

Ripenso ai tanti nudi della Shoah, alle fotografie dai lager, ai video dei liberatori. Ai nudi ammonticchiati nelle fosse. Di fronte alle nudità della Shoah, raramente ci sentiamo nudi. Anzi quelle nudità viste e riviste in mille fotografie dai campi di sterminio ci fanno sentire al caldo, al sicuro, beati perché distanti da ciò che accadde. Come diceva Primo Levi?

«Nelle vostre tiepide case».

A volte invece, e sono le volte migliori, la nudità della Memoria, quella esplicita e quella che non percepiamo subito come tale, fa sentire anche noi stessi nudi, insicuri. È una nudità che considero buona, e non parlo solo di corpi senza i vestiti.

Il dolore degli altri è una specie di nudità, che non può mai essere utile, educativa o di per sé significativa. È un dolore che va ascoltato. E rispettato.

 

Buon compleanno, Olga

Sono andato a Venezia anche per fare festa a Olga Neerman. Rifugiatasi da sola sull’altopiano di Asiago tra il 1943 e il 1944, per non essere deportata, Olga si nascose in una malga mezza diroccata e vi passò diversi mesi. In questi giorni ha compiuto 99 anni e siamo amici.

Aiutata da Marina Scarpa Campos dell’Associazione Figli della Shoah, Olga ha raccontato spesso nelle scuole quel che le era accaduto, e ogni volta commuovendosi, emozionandosi, faticando.

«Una mattina alcuni professori mi hanno chiesto di fare tre turni, e di raccontare la mia storia per tre volte a fila. Ma io non sono un’attrice».

Ci siamo fatti una foto. Ma Olga, un signora di 99 anni sorridente e speranzosa, da tempo preferisce non avere immagini su internet. Ha paura dei commenti, e degli antisemiti, e di chi inneggia alla distruzione degli ebrei o al fascismo, anche tra i giovani.

 

Il sangue, ma tanto

Nella riflessione sul mostrare il dolore, fa perfino meglio Milo Rau in Medea’s Children con la drammaturgia di Kaatje De Geest. Considero questo spettacolo straordinario, è una gemma tra le cose più splendenti che ho visto. Il dramma di Medea ripreso da Eschilo si fonde alla cronaca di un vero infanticidio. Una donna del passato uccide i suoi due figli, una donna del presente uccide i suoi cinque figli. Eschilo ha dato voce a Medea, la cronaca alla donna. Milo Rau dà voce ai figli, a quei figli.

Avvertenza (16+): questo spettacolo contiene scene che fanno riferimento direttamente o indirettamente al suicidio, all’infanticidio, alla pedofilia e contiene scene che utilizzano sangue finto.

Le avvertenze stridono ancora più forte perché in scena sono tutti minorenni (Ella Brennan, Elias Maes, Juliette Debackere, Helena Van de Casteele, Aiko Benaouisse, Bernice Van Walleghem – il più vecchio è nato nel 2010) più un unico adulto (Peter Seynaeve).

Lo spettacolo è in olandese e comincia dal fondo, dalla base del sipario chiuso esce la sabbia che presumibilmente ricopre il palco, davanti al sipario sette sedie di legno, un pianoforte e un theremin. Tutto comincia con il dibattito, come se lo spettacolo fosse appena finito, e iniziano a entrare nelle storie delle ragazze e dei ragazzi, che appaiono un po’ per volta come se arrivassero dai camerini, dopo la doccia.

Scusate, ci ho messo un po’ a lavarmi per colpa di tutto quel sangue.

E parlano, entriamo nelle loro vite, nei loro tic, ci sono simpatici, ridiamo. E un po’ per volta ci affezioniamo. Sono veri, sono reali. Sono i nostri ragazzi e le nostre ragazze. E hanno voce. E poi cantano. E ricominciano: vogliono mostrarci cosa hanno fatto. La loro storia.E noi sappiamo cosa succederà. Ah, se solo non sapessimo. Tutto, dalle scene alle luci all’allestimento, ci portano a sprofondare dentro un buio che è quello dell’omicidio, dal quale ci risolleviamo qui e là. E la violenza ci viene mostrata senza rimorsi. Con tanto, davvero tanto sangue. Sangue ovunque. Un coltello, una videocamera che entra in una stanza con un divano. Ero allo stesso livello della scena e qualcosa ti rimane addosso, e non se ne va più. C’è qualcosa di perfetto in questo spettacolo, e insieme di disturbante.

«Sappiamo che finirà, ma ci proviamo lo stesso».

Dice una giovanissima attrice verso il finale. E il senso di Medea è forse tutto lì, l’ineluttabile, scavare via dal dolore anche solo un istante di felicità. Aprire nel buio una porta di luce. E qui sta la perfezione.

Anche quando fai Memoria è così. Se solo non sapessimo. E sappiamo come finirà, ma ci proviamo lo stesso.

Il lato disturbante per me stava anche nell’età dei giovani interpreti. La bimba più piccola (Juliette) ha dieci anni, e deve recitare nella prima scena autenticamente cruenta: nessun linguaggio crudo ma un omicidio in diretta. Vorremmo salvarla. In prima fila c’è chi si tiene la mano sulla bocca. I sei minorenni in scena hanno visto quello che ho visto io, e lo hanno visto da dentro, vivendolo e rivivendolo. Mi chiedo più volte se sia giusto o meno, pur ipnotizzato da quel che accade davanti a me.

Ho sempre pensato, e penso ancora, che la violenza della Shoah richieda gradualità. La violenza non è amica di vuole ricordare, perché confonde e diventa essa stessa protagonista. Però c’è. C’è stata. Evitarla è ingiusto, e dunque la si affronta al momento opportuno.

Il teatro ti mostra la violenza con il distacco dell’opera d’arte, e permette a noi adulti di immergerci in un infanticidio, anzi in cinque sequenze di omicidio ravvicinatissime, in un crescendo di dramma, e in un tentato suicidio.

Forse la potenza del teatro è anche questa: Food Court e Medea’s Children non sono rassicuranti. Violenza e discriminazione non sono rassicuranti, e forse non vanno neanche affrontati in modo rassicurante. Perché ci cambino.

A chi è servito quel dolore? A noi spettatori sicuramente. E a coloro che calcavano la scena? Esco con pensieri dolci e amari.

 

Pareidolia della Memoria

Non è una malattia. Non è un saggio di Chomsky (visto che è ancora vivo, però, non si sa mai). E nemmeno un inedito di Battiato.

Le nuvole a forma di drago. Il sorriso dei rubinetti. Gli alberi con gli occhi. Teste scolpite sulle rocce di Marte. I gatti con la faccia di Hitler. Sono tutti esempi di pareidolia, quell’illusione della mente che ci spinge a vedere forme note (più spesso facce umane) là dove concretamente non ci sono. Pare sia un’attitudine antichissima, frutto della necessità di difendersi dai pericoli e di interpretare la realtà più velocemente di quanto facesse la tigre coi denti a sciabola, ma anche del desiderio, forse innato, di riconoscere un essere umano tra i mille segni differenti nella foresta.

A volte mi chiedo se fare Memoria non sia una forma speciale di pareidolia, che ci permette di riconoscere l’umano là dove l’umanità veniva cancellata. Oltrepassare le discriminazioni, come in Food Court. Oltrepassare la violenza, come in Medea’s Children.

È una pareidolia della Memoria, mi piace pensarlo: cercare un’espressione, uno sguardo, a volte addirittura un sorriso proprio là dove l’annientamento vince su ogni cosa. A volte è la chiave per ritrovare autentica umanità, senza dimenticare che la pareidolia è un’illusione: a volte ci confonde, e ci mostra il passato non per come è stato ma per come si adatta meglio al nostro pensiero, al nostro vissuto, a un’idea meno spaventosa di noi stessi. Il dolore degli altri è uno straordinario modo per mostrare le nostre tiepide case, non è così?

 

Bonus: benvenuti

Benvenuti ai tanti (davvero tanti) che sono arrivati qui dopo aver letto la newsletter Ok Boomer! di Michele Serra, ospitata dal Post. Grazie a Serra, e grazie a tutte e tutti voi per la fiducia. Cercherò di meritarmela.