Tre colori

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Rosso

Negli ultimi giorni mi hanno colpito due diverse fotografie. Una viene da New York, dove l’ingresso della casa di Anne Pasternak è stato imbrattato da vandali antisemiti. Anne Pasternak dirige il Brooklyn Museum ed è ebrea. Sulla facciata della sua abitazione, tra i moltissimi schizzi simbolicamente color rosso sangue, sono stati tracciati alcuni triangoli rossi con la punta rivolta verso il basso: è il simbolo che usa Hamas per individuare gli obiettivi da colpire.

La stessa sorte è toccata alle case di altri quattro dipendenti dello stesso museo, tutti ebrei. Il Brooklyn Museum progetta mostre di vario tipo e attualmente ne ha tre molto belle, dedicate alle viste di Edo disegnate da Hiroshige, alle fotografie scattate da Paul McCartney nel tour americano dei Beatles, e al concetto di identità nazionale e sessuale nell’arte contemporanea. Il museo ha da sempre un’attenzione spiccata per le minoranze americane e per il ruolo dell’arte contro il razzismo, il colonialismo e il suprematismo bianco, ma negli ultimi mesi ha ricevuto minacce di vario genere per la presenza “ebraica” nella dirigenza.

Chi attacca il museo, praticamente sempre sotto anonimato, accusa la dirigenza di spalleggiare l’esercito israeliano e di sostenere direttamente le stragi di civili a Gaza. È una associazione che purtroppo si sente sempre più spesso, anche in Europa, e che trasforma ogni ebreo, per il solo fatto di essere ebreo, in un sostenitore delle politiche di Benjamin Netanyahu. Sembra ogni giorno più inutile ricordare che Netanyahu non goda di una maggioranza politica schiacciante e che proprio in Israele, come negli USA, sia bersaglio di proteste molto forti da parte degli ebrei stessi.

Ma c’è un altro colore rosso, in una seconda foto, che mi ha colpito. Ci mostra un piccolo aereo che getta una nuvola sopra gli incendi causati dal lancio di razzi di Hezbollah, nel nord di Israele.

 

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Quel colore rosso è un agente ritardante. Non lo si lascia cadere sopra il fuoco, ma lo si sparge nella zona più vicina all’incendio, prossima ad essere investita dalle fiamme. Il ritardante protegge le piante e fa in modo che non prendano fuoco o che brucino molto lentamente, per dare il tempo ai vigili del fuoco di contrastare l’incendio.

Le due fotografie ci mostrano lo stesso rosso. Con lo stesso tono. Sembrano venire dallo stesso barattolo. Uno accelera la violenza, l’altro ci dà il tempo di rafforzarci e reagire. Ma sono lo stesso rosso, lo stesso colore, in due realtà differenti da approfondire.

 

Bianco

Noa Argamani è stata liberata. Tenuta in ostaggio da Hamas dopo essere stata rapita durante il Nova Festival, lo scorso 7 ottobre, e divenutane uno dei simboli perché di lei era rimasto l’ultimo video mentre veniva trascinata via in motocicletta, ha potuto riabbracciare i suoi famigliari. In particolare, la foto dell’abbraccio con suo padre, in una stanza completamente bianca, mi ha fatto pensare.

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Quando ci si occupa di Shoah e di trasmissione della memoria dei sopravvissuti, si ha sempre a che fare con persone anziane che in gioventù hanno subìto il trauma della deportazione. Chi tra loro è diventato genitore ha trasmesso la propria storia ai figli, raccontandola. Una decina di anni fa, un accurato studio condotto da Rachel Yehuda del Mount Sinai di New York dimostrò che la trasmissione avviene anche attraverso il DNA, ossia la memoria dello sterminio sembra essere qualcosa di fisico e non solo di narrativo.

Fatto sta che, per racconto o per genetica, la Shoah passa da genitori a figli, e più raramente nella storia è accaduto l’opposto. L’Associazione figli della Shoah nasce proprio da questa idea.

L’attacco compiuto da Hamas il 7 ottobre ha colpito soprattutto i giovani, e nella zona del Nova Festival ha colpito praticamente solo i giovani. E ora, in una storia che inverte le parti in modo drammatico, sono spesso i giovani a dover raccontare il trauma ai genitori, senza un passaggio genetico, senza appigli, senza regole. Per questo la fotografia di Noa Argamani che abbraccia il padre mi ha fatto pensare.

E la mia mente, per associazione, è tornata a una foto del 22 ottobre, scattata vicino all’ospedale al-Najjar di Gaza. Ci mostra una ragazza che stringe tra le braccia un piccolo corpo avvolto in un lenzuolo. Il lenzuolo è bianco.

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Potremmo pensare che si tratti di sua figlia, e invece il fotografo ci dice che quel corpo è il corpo della sorellina.

Quanti morti innocenti tra i palestinesi per liberare gli ostaggi? Non abbiamo un numero certo, ma pare siano tanti. E non riesco a mettere le cifre sulla bilancia, perché in cuor mio so che la vita di una persona non vale più di quella di un’altra. So che se fossi il padre di Noa sarei felice e basta, senza alcun pensiero. Ma tutti noi, tutti noi che non siamo direttamente coinvolti, siamo solo pieni di dubbi.

Il sorriso di Noa, i civili uccisi. È il rosso a due facce della guerra. La liberazione degli ostaggi israeliani, la morte dei palestinesi, il processo lentissimo di pace, così osteggiato. È lo stesso rosso che non ci fa più distinguere tra bene e male, sempre che ci sia ancora un bene, da qualche parte, in tutto questo.

 

Un tesoro da vedere

Ambientato nel 1990, ci parla di un sopravvissuto alla Shoah che proprio non ha nessuna intenzione di parlarne, tanto più alla figlia. È il nuovo film di Julia von Heinz (scritto insieme a John Quester) e basato sul libro Too Many Men di Lily Brett. Presentato alla scorsa Berlinale, s’intitola Treasure e porta in scena una grande attrice come Lena Dunham (nella parte di Ruth, una giornalista americana) e un grande attore come Stephen Fry (nella parte di Edek, suo padre).

 

I due viaggiano in Polonia per riscoprire i luoghi dell’infanzia del padre. La Shoah inizialmente è lontana dai loro pensieri ma un po’ per volta entra a farne parte, s’insinua. Edek non ha nessuna voglia di raccontare, e il suo continuo svicolare genera situazioni tragicomiche e surreali.

Lo considero un film importante. È un film sulla consapevolezza. Sul passaggio tra generazioni che diventa poetico, simpatico, commovente.

 

Blu

Appoggio l’iniziativa di Hashomer Hatzair (per chi non lo sapesse, è lo scoutismo ebraico, in classica uniforme blu). Il gruppo italiano ha il desiderio di ospitare nel proprio campeggio estivo le ragazze e i ragazzi israeliani sfollati dal Kibbutz Bara’am. Situato a nord di Israele, vicino al confine con il Libano, oggi è un luogo dove è pericoloso vivere per gli attacchi di Hezbollah: gli sfollati sono tantissimi.

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Allo scoppio della guerra, HaShomer Hatzair Italia ha fatto tanto per aiutare i fratellini e le sorelline in Israele (così si chiamano tra di loro i membri scout). Hanno organizzato raccolte di fondi per i kibbutzim e portato calore umano dove la guerra divide e preoccupa.

La nuova iniziativa è ancor più intraprendente e sognatrice: ospitare in Italia il gruppo di Bara’am e permettere a ragazzi e ragazze di partecipare a un campeggio estivo. Per farlo, Hashomer Hatzair sta organizzando una raccolta fondi. Faccio appello ai tanti scout Agesci che conosco di persona: chissà che non ne nascano collaborazioni felici e condivisione di desideri.