Generazione Ofelia

Ofelia
 
Una ragazza fa il bagno nel Golfo Persico, in Qatar. Fotografia di Tanya Habjouqa.

C’è una ragazza abbandonata sul mare. Il mare è grigio, lei guarda il cielo. Sullo sfondo, lo skyline di una città che non conosciamo. La ragazza ha le braccia aperte. È come l’Ofelia di Millais. Ma lei non è morta. È una ragazza palestinese in Qatar.

Il Wall Street Journal ha pubblicato qualche giorno fa un articolo di Omar Abdel-Baqui insieme alle fotografie di Tanya Habjouqa. I due sono andati alla ricerca delle ragazze e dei ragazzi palestinesi fuoriusciti in mille modi dalla Striscia di Gaza e rifugiatisi altrove, per raccontare le loro storie e i loro pensieri.

Abdel-Baqui li chiama ancora generazione Z, sempre che sia una definizione valida. E li racconta così: sconfitti, delusi, disillusi di poter costruire una qualche forma di pace, pur desiderandola. Diversi tra loro odiano la politica israeliana. Una buona parte odia Hamas ma non riesce a dirlo pubblicamente, per paura.

Gli attentati terroristici condotti da Hamas il 7 ottobre 2023, e la risposta militare del governo d’Israele hanno generato morte e dolore, senza portare concreti benefici agli israeliani e ancor meno ai palestinesi. Visti in prospettiva, gli eventi stanno plasmando l’identità di una generazione, in particolare tra ebrei e musulmani, e non solo su quel lato del Mediterraneo. Si tratta di una questione aperta e ancora poco chiara per tutti noi che ci muoviamo tra Memoria ed educazione. Gli articoli come quello di Abdel-Baqui ci aiutano ad avere uno sguardo più lucido. E capire cosa fare, se c’è qualcosa da fare.

La pace tra Israele e Palestina andrà costruita da chi fa politica, ma tra palestinesi e israeliani ci penseranno le persone. L’impressione è che la generazione Z sia travolta dalla violenza e sia essa stessa capace di portarne, e insieme stia già immaginando nuove relazioni, si stia muovendo per posizionarsi, adattarsi, inventarsi. Inventare anche nuovi luoghi, al di là del refrain di due popoli due stati che sembra avere meno forza di un tempo. Stanno nascendo nuove identità? Partiamo da qui.

 

L’ombra di Auschwitz

La zona d’interesse di Glazer non mi aveva convinto fino in fondo. Solo le parti oniriche, quasi una favola raccontata per immagini, mi erano sembrate all’altezza dell’interesse suscitato dal film. Ma pazienza, magari se ne riparlerà tra un po’. Il recentissimo The Commandant’s Shadow è invece un documentario curato, che torna sulla vicenda di Rudolf Hoss, comandante di Auschwitz, ma lo fa attraverso Kai, il nipote, che mette piede nel campo di sterminio insieme a suo padre, ossia insieme al figlio di Hoss. In loro compagnia, là dove il docufilm ha un suo apice, arriva la sopravvissuta Anita Lasker-Wallfisch, 98 anni, ebrea e violoncellista dell’orchestra femminile del lager, e pone una domanda semplice e terribile: chiede a quegli uomini se provano odio verso il comandante.

Nel tempo si è ragionato molto sull’identità dei figli delle vittime, ma più raramente sull’identità dei figli dei carnefici. Chi sono? A cosa pensano? Detestano il passato? Lo hanno rimosso? Assorbito? Cosa è rimasto in loro di quelle vicende?

Identità è una parola strana, che leggo sempre con un po’ di diffidenza, come se nella storia avesse portato più problemi e divisioni che buone notizie. L’identità è qualcosa di misterioso e per certi versi insondabile. E quando si manifesta, la si scopre in fondo fragile: quel che ognuno di noi è, quel che ognuno di noi sa di essere, è così difficile da definire a parole.

 

+ sta anche per “ebraismo”?

Ci ho ripensato giorni fa, alla notizia che alcuni organizzatori del Queer Pride a Cincinnati si sono dimessi perché la loro identità non è solo LGBTQ+ ma anche ebraica. La loro decisione è stata causata dalle ripetute minacce che hanno ricevuto nelle scorse settimane, e dalla paura che la loro incolumità possa essere messa in pericolo.

Queste persone si sentono tranquille se manifestano pubblicamente la loro identità LGBTQ+, ma lo sono molto meno quando a quella identità si associa anche un’identità ebraica. Nella stessa comunità LGBTQ+ in USA c’è un dibattito aperto su questo argomento. È davvero libertà se puoi raccontare solo quella parte di te che verrà accettata?

 

Superstiti

Quali sono i confini della nostra identità? O meglio, delle varie identità che convivono in noi? Fare Memoria non ci aiuta a definire linee chiare, ma ci spinge invece ad arrenderci a un’evidenza: l’identità è sempre indefinita, e il bello dell’umanità sta anche lì. La violenza nazista si basava in fondo sulla fissità dell’identità: a distanza di 80 anni è bene non cadere nel medesimo errore.

Scriveva Cynthia Ozick in quel libro prezioso che è Lo scialle:

«E guarda anche che parola usano: superstite. Qualcosa di nuovo. Tanto per non dire «essere umano». Una volta era profugo, ma ormai non ce ne sono più di creature del genere, non più profughi, solo superstiti. Un nome come un numero contato fuori della mandria. Cifre blu sul braccio, che differenza fa? Comunque, donna non ti chiamano. Superstite. Perfino quando le tue ossa andranno a mescolarsi con i granelli della terra, anche allora dimenticheranno l’essere umano. Superstite, superstite, superstite; sempre così».

Facendo ricerca sulle ragazze che erano parte dell’orchestra femminile di Auschwitz, proprio come la violoncellista Anita Lasker-Wallfisch, più di una volta mi sono domandato se la somma di identità (in quel caso, essere ebrea, essere donna, essere musicista) potesse generare qualcosa di originale nell’intimo delle persone e nei rapporti fra loro. Mi sono risposto che la somma e la convivenza di identità non esiste solo là dove partecipano allo stesso individuo identità molto forti e marcate, ma in ciascuno di noi. In tutti.

 

Come una torta

Palestinese che odia Hamas. Ebreo queer. Europeo nipote di comandante nazista. Ebrea donna musicista. Ebrea sopravvissuta. Israeliano musulmano. Giovane sionista.

L’identità è fatta a strati. Come una torta. E ognuno di noi vive di questi strati. Alcuni strati della torta ai nostri occhi contano di più. Ci piacciono di più. Ci conviviamo meglio. Altri contano di più agli occhi di chi abbiamo intorno, e magari per noi sono meno rilevanti.

Non parla di torte, come me, ma ci riflette anche Rivka Sally, una giornalista ebrea e nera alla quale in USA è stato chiesto più volte se fosse davvero ebrea, poiché i poliziotti che la fermavano non credevano potesse esistere un’ebrea nera, o una nera ebrea. È una mentalità diffusa: due identità distinte non possono assolutamente incontrarsi, no? Tantomeno nella stessa persona: poche cose intaccano la convivenza come la cristallizzazione delle identità.

Ci ragiona Ruthie Hollander nel suo post più recente, interrogandosi sulla parola sionismo, che secondo Hollander avrà tutto un altro sapore per la generazione Z dei giovani ebrei.

 

Una vita in copertina

È nata nel 1921, da ragazza abitava nel quartiere di Kreuzberg. Berlino, la grande città, gli incontri, il riflesso dei negozi lungo la Sprea, la spingevano a sognare di diventare stilista e a fare strada nel mondo della moda. Il suo nome è Margot Bendheim, e il suo sogno si è forse realizzato.

Suo fratello, sua madre e suo padre (che non viveva con loro perché lui e la moglie avevano divorziato) erano stati deportati ad Auschwitz nel gennaio del 1943. E lì uccisi. Ma Margot ne ebbe la certezza solo molti anni dopo.

Margot si era nascosta, ed era rimasta nascosta per mesi da sola, a cercare di cavarsela. L’aveva aiutata una vera e propria rete di sconosciuti berlinesi che le procurava cibo, informazioni e un alloggio, e anzi continuava a trasferirla da una parte all’altra della città, in stanze diverse, per sicurezza.

Sempre per sicurezza, occorreva che Margot cambiasse la sua identità. Così la rete di benefattori le scucì le stelle gialle dai vestiti, le fornì documenti falsi, le tinse i capelli di rosso. Nonostante fossero contro il regime, i salvatori di Margot non erano immuni agli stereotipi, e volevano star sereni fino in fondo. Si misero in testa che il naso di Margot fosse troppo… ebraico. Con una piccola operazione chirurgica clandestina, glielo fecero raddrizzare un po’.

La cosa funzionò fino all’aprile del 1944. All’ingresso di un rifugio antiaereo, due uomini della Gestapo arrestarono Margot come persona sospetta, e in caserma lei ammise di essere ebrea. Fu deportata a Theresienstadt, non lontano da Praga.

Il ghetto serviva da campo di transito ed era un luogo di sofferenza, durissimo. Margot ebbe la fortuna di non essere trasportata verso est. Dal gennaio del 1945, Theresienstadt divenne uno dei lager utilizzati dai nazisti per raccogliere gli internati dai campi di sterminio in Polonia che mano a mano venivano abbandonati per l’avanzata dall’armata rossa. Margot ricorda gli arrivi di quelle persone irriconoscibili, che scendevano dai vagoni per il bestiame. L’unica luce in quel buio fu rappresentata per lei dall’amicizia, e poi dall’amore, con Adolf Friedländer. I due sopravvissero, si sposarono e si trasferirono in USA nel 1946. Margot diventò Friedlander, e in America si fece chiamare con quel cognome.

Visse nel Queens, a New York, per tutta la vita del marito. Fece diversi lavori, tra i quali la sarta (con sua grande felicità). Poi qualcosa cambiò in lei: decise di raccontare la propria storia, come se fino a quel momento avesse preferito custodirla nell’intimità della propria casa. A 88 anni suonati, poi, fece trasloco. Un trasloco davvero impegnativo per chiunque, e figuriamoci per una signora di quell’età: tornò a vivere a Berlino.

Dove tuttora vive. La notizia della settimana è solo per lei. Vogue Germania le ha dedicato la copertina del numero di luglio / agosto.

Per tutta l’estate, lettrici e lettori di Vogue vedranno il suo volto sorridente, lei, col record della più anziana persona (103 anni a novembre) a essere mai finita in copertina su Vogue, un cappottino rosso che le sta proprio bene (forse è un riferimento visivo all’iconico cappottino rosso di Schindler’s List, chissà). E la parola LOVE bella grande.

A ricordarci cosa rimane davvero dell’identità, qualsiasi cosa succeda, in fondo in fondo.